ARRAMPICARE INTORNO AL LARIO
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Comunità Montana del Lario Orientale

ARRAMPICARE INTORNO AL LARIO ORIENTALE
Di Pietro Corti
Dedicato a tutti i chiodatori

Novantiqua multimedia, Maggio 2008
Collana Natura&Storia
Itinerari di natura e storia nella Comunità Montana del Lario Orientale

Distribuzione a cura della
Comunità Montana del Lario Orientale

Riportiamo di seguito il CAPITOLO UNO, l’intervista a Marco Ballerini e Stefano Alippi, ed un inedito testo di Paolo Vitali.

Capitolo uno

Sulle montagne lecchesi l’escursionismo è praticato fin dalla metà dell’800 ed è tutt’ora l’attività “outdoor” più popolare; nel 1900 arriva l’arrampicata sulle guglie della Grigna Meridionale, dando vita ad una vivace storia alpinistica che ha portato grande prestigio alla città. 
L’arrampicata sportiva è invece storia relativamente recente, a partire dal 1980, ma ha coinvolto progressivamente un tale numero di appassionati da diventare uno dei fenomeni più importanti nel territorio. Questo grazie alla ricchezza di strutture di facile accesso ed ottima roccia, ed all’impegno di un numero relativamente ristretto di chiodatori che a titolo di volontariato hanno attrezzato centinaia di itinerari apprezzatissimi. 
Ci sono stati anche notevoli interventi svolti da professionisti su commissione di Enti (Comune di Introbio per il Sasso di Introbio – Zucco dell’Angelone e Comunità Montana del Lario Orientale per le vie della Grigna Meridionale e della Corna di Medale), col risultato di creare un’imponente offerta per tutti i gusti e capacità. 
Questo libro intende presentare le migliori falesie della Provincia di Lecco, inserendole in un percorso storico e descrivendone il contesto ambientale attraverso le immagini. Qualche indicazione anche alle proposte “alternative”, indicando nelle cartine degli accessi stradali i principali sentieri escursionistici o le ferrate. 
Non vogliamo però fare una guida in senso classico: qui troverete solo una presentazione schematica delle aree trattate senza relazioni né schizzi. Il progetto si completa infatti con la pubblicazione in internet delle informazioni tecniche (disegni delle strutture e degli itinerari, nomi, gradi di difficoltà e commenti sintetici), aprendo il ventaglio alle vie sportive in parete attrezzate a fix e resinati, alle nuove falesie che nasceranno ed a quelle che dovessero venire riattrezzate. 
La nostra vera guida sarà quindi “on line” e “free”, e potrà interagire in tempo reale con quanto avviene nel mondo verticale lecchese, utilizzando il WEB per un’informazione veloce ed efficace che ci permetterà di integrare di volta in volta il pacchetto con altre informazioni utili e novità. Tutto questo nel sito LARIOCLIMB, gestito dall’alpinista lecchese Paolo Vitali con la collaborazione di Sonja Brambati, Pietro Corti, Vittorio Mantegazza e di Giorgio De Capitani per le gallerie fotografiche. 
La Comunità Montana del Lario Orientale, attraverso il suo presidente Cesare Perego, si è interessata a questa idea, sensibile come sempre alla divulgazione delle numerosissime possibilità di fruizione turistica delle nostre montagne.

L’era del Bàllera...
L’inizio dell’arrampicata sportiva a Lecco

Marco BalleriniLa storia dell’arrampicata sportiva nel lecchese è cominciata intorno ai primi anni ‘80, sulla scia di quanto stava accadendo già da qualche tempo in Italia e nel resto d’Europa.
Era appena trascorso un decennio di radicale cambiamento, assai combattuto e movimentato, che aveva messo in discussione molti valori tradizionali. Era nato il Nuovo Mattino, cavalcando l’onda del free climbing, e poi era tramontato, aprendo la strada ad una nuova stagione. Da noi tutto inizia intorno ad un personaggio chiave, scalatore appassionato ed anticonformista, sempre con le antenne alzate pronte a cogliere tutto quanto di nuovo veleggiava nell’aria sopra il mondo verticale. 
Sto parlando di Marco Ballerini detto Bàllera, classe 1957, che dalle Guglie delle Grigne e le grandi pareti alpine, passando per la Patagonia e l’Himalaya, è riuscito a percorrere la lunga strada fino al decimo grado. 
In seguito tanti altri hanno messo le mani sulle rocce intorno a Lecco, lasciando tracce profonde, ma lui ha avuto la ventura di essere il primo, ed è a lui che mi sono rivolto.
Per me è stato facile, conosco Marco fin dagli inizi della sua carriera, e gran parte di questa storia avrei potuto scriverla anche da solo. Tuttavia ho preferito farlo parlare, scegliendo per questa chiacchierata l’ambiente della palestra indoor della Comunità Montana del Lario Orientale a Lecco; tanto poi sapevo che al termine gli sarebbe venuta voglia di sgranchirsi un po’ su questi pannelli iperstrapiombanti…

(Pietro) La storia dell’alpinismo lecchese è davvero lunga, piena di personaggi di prestigio che hanno lasciato il segno su tutte le montagne del mondo. Si conoscono forse un po’ meno le vicende legate all’arrampicata sportiva nel nostro territorio. In fondo quello che è cominciato nei primi anni ’80 è già “storia”; ne è passato di tempo… purtroppo.

(Bàllera) Perchè “purtroppo”? E’ vero, di tempo ne è passato, ma oggi ho ancora una gran voglia di scalare. 

Anch’io… Intendevo dire che comunque abbiamo raggiunto anche noi una certa età.

Già; eppure, magari perché sono un po’ rincoglionito, io questa cosa la vivo bene.

Meglio! Allora spremiti le meningi, perché vorrei farti raccontare, da protagonista, come è nata l’arrampicata sportiva dalle nostre parti. Ho il sospetto che tu ne sappia qualcosa. Però, per prima cosa una domanda classica: come hai iniziato a scalare?

Come tutti gli altri, da alpinista classicissimo. Prima ancora, però, l’arrampicata l’ho vissuta ascoltando quelli che scendevano ai Resinelli di ritorno dalle loro arrampicate in Grigna. 
I miei avevano un albergo ai Piani dei Resinelli e per me questi personaggi, vedendoli con gli occhi da bambino, erano dei miti. Sopra tutti Riccardo Cassin, ma anche tanti altri.

Eri proprio un “bocia”…

Sì, andavo alle elementari, e come tutti i bambini ero attratto dall’avventura. Questi racconti mi affascinavano moltissimo. Al momento però non pensavo di darmi a mia volta alla scalata; i miei genitori erano appassionati di sci, e non appena ho imparato a reggermi sulle gambe mi hanno messo sopra ad un paio di sci. 
Da lì è partita la mia prima passione; mi sono buttato in questo sport dandomi all’agonismo, e tutto il tempo libero lo dedicavo allo sci. Ma l’arrampicata ormai mi era entrata nella testa...

Se ricordo bene, quindi, non hai iniziato prestissimo ad arrampicare.

Infatti: ho iniziato tardissimo. Ho cominciato a scalare quando la mia carriera di atleta è terminata a causa di diverse fratture alle gambe. Così, era il 1975, e avevo appena compiuto 18 anni, sono andato a candidarmi al corso per diventare maestro di sci, non potendo più gareggiare.
In quell’occasione ho conosciuto Adriano Trincavelli di Mandello, il “Moss”, fortissimo alpinista che stava frequentando a sua volta il corso, ed era già un personaggio famoso. Con lui finisco inevitabilmente a parlare di alpinismo e, a maggio-giugno, mi porta due o tre volte in Grigna a scalare….

In quel periodo avevo appena iniziato anch’io (che di anni ne avevo tredici - quattordici), ma tu hai puntato da subito alle salite di un certo livello.

Ho fatto un paio d’anni di apprendistato scalando solo nelle mezze stagioni, perchè facevo il maestro di sci sia d’inverno che d’estate. Però mentre insegnavo a Cervinia scoprii che nei dintorni c’erano delle palestrine di arrampicata, che visitavo di frequente. Nel frattempo ho conosciuto alcune guide locali: altre storie, altri stimoli… E poi il Cervino, proprio sopra la testa.
Ho deciso quindi che d’estate non si poteva lavorare e mi sono comprato un pulmino, un Bed Ford bianco, e l’estate successiva l’ho passata esclusivamente ad arrampicare.

Quindi la prima estate veramente “cattiva” è stata quella dei tuoi 21 anni.

Sì, avevo già iniziato ad allenarmi un po’, e ad informarmi su quelle che potevano essere le salite più interessanti.

Con l’obbiettivo di ripetere le vie famose e rinomate…

Non mi sono mai posto degli obbiettivi precisi. Però volevo distinguermi, questo sì. Fare delle cose difficili, anche perché la mia formazione sportiva deriva dall’agonismo. Quando ho iniziato con gli sci mi dicevano: “qua si parte, là si arriva, e devi andar giù più forte che puoi”.
Dai 6 ai 17 – 18 anni ho fatto quello, quindi avevo grinta da vendere. Diciamo che mi sentivo abbastanza competitivo.

A parte il “Moss”, con chi scalavi a quei tempi? Ragazzi di Lecco?

All’inizio sì, tra l’altro con gente che oggi non arrampica neanche più, come il “Cecchino” Bonaiti, ma a Lecco era molto difficile emergere se non avevi un carattere forte. Tutti questi personaggi, questi grandi alpinisti…
Infatti nonostante fossi già conosciuto, grazie ai miei successi nelle gare, ho avuto le mie belle difficoltà in un ambiente dove tutti pensavano di essere i migliori. Tra l’altro anche il mio modo di fare non sempre è stato visto di buon occhio, ed ho incontrato qualche incomprensione.
Comunque a Lecco ho trovato subito ragazzi della mia età con i quali condividere la mia voglia di scalare, di migliorare. Ricordo un paio di stagioni molto intense con l’Antonio Peccati “Briciola” del gruppo Condor: partivamo col mio furgone e stavamo in giro intere settimane ripetendo un sacco di salite. Poi c’erano il Dario Spreafico “Pepetto”, Norberto Riva “Norbi”, Paolo Crippa “Cipo”. Con lui ho scalato molto, ed è stato un personaggio che mi ha dato tantissimo. Amici con cui ho vissuto esperienze anche al di là dell’arrampicata.
Andavo spesso anche con i bergamaschi: Sergio e Marco Dalla Longa, purtroppo tutti e due morti in incidenti in montagna; Vito Amiconi; Bruno Tassi “Camoss”, che già era uno scalatorefortissimo, in anticipo sui tempi.

Com’è successo che sei passato all’arrampicata sportiva? Dalle pareti di ottocento metri a quelle di venti?

All’inizio pensavo solo a “spingere” sulle grandi pareti; le strutture più piccole, il Nibbio, la Grigna, servivano per allenarsi. Però mi tenevo aggiornato, informandomi e leggendo tutto quello che mi capitava per le mani. 
Era facile intuire cosa stava succedendo. Sentivi Messner che parlava di settimo grado e, naturalmente, c’era chi gli “dava addosso”; in Italia infatti eravamo ancora inchiodati al concetto di sesto grado e certi discorsi non erano graditi.
Allora mi son detto: andiamo a vedere, perché se questo signore, che in montagna ne ha fatte di ogni, si permette di dire che c’è qualcosa oltre il sesto grado, bisogna andare a provarlo. Di arrampicata sportiva proprio non se ne parlava…

Con quali salite ti misuravi in quegli anni?

Già nel ‘77/’79 avevo ripetuto un bel po’ di grandi classiche in Dolomiti; le vie del Comici, Cassin, Carlesso, Aste. Quindi mi venne la voglia di conoscere quelle nuove salite che sembravano essere ancora più difficili. Ricordo per esempio la Messner al Grande Muro e Mephisto, sempre al Sass d’la Crusc. Talvolta fallivamo, ma poi si ritornava più allenati e motivati. 
Però l’arrampicata libera non la si intendeva come oggi, in effetti non era ben chiaro che cosa significasse salire in libera. Non si guardava tanto per il sottile, appendendosi ai chiodi per progredire o per riposare. Queste vie avevano un impegno globale così elevato, rispetto a tanti vecchi itinerari considerati estremi, che era già un successo riuscire a venirne a capo in qualche modo. Rispetto alle classiche, qui c’erano tratti “obbligati” molto più difficili, sicuramente oltre il sesto grado.
Comunque si scalava tanto, ed eravamo anche piuttosto veloci; nel 1978 io e Norberto siamo stati una delle prime cordate a ripetere in giornata il Pilone Centrale al Monte Bianco.

Quindi hai iniziato a girare anche al di fuori delle Alpi. 

Nel 1979 sono stato uno dei primi italiani ad andare in Yosemite. Ci sono andato da solo perché il mio compagno qualche giorno prima di partire aveva disintegrato l’automobile, che gli era indispensabile per il suo lavoro, e dovette rimanere a casa per comprarsene un’altra.
In Yosemite ho conosciuto un vero e proprio movimento culturale che non aveva niente a che fare con l’alpinismo tradizionale a cui eravamo abituati in Italia. Una dimensione del tutto inaspettata.

Avevi in testa qualche cosa in particolare?

Come al solito non partii con degli obbiettivi, ma con l’intenzione di capire quello che stava succedendo da quelle parti. Si sentivano delle storie incredibili, si parlava di settimo grado, di un nuovo modo di scalare. Volevo confrontarmi… 
Le mie ambizioni però si sono subito ridimensionate appena mi sono attaccato sulla roccia della Valle. Sono andato là pensando di essere bravo, avevo già vinto un “Grignetta d’Oro” ed avevo già ripetuto un sacco di vie molto difficili nelle Alpi (n.d.a.: il premio annuale “Grignetta d’Oro” era stato istituito dalla sottosezione di Belledo del C.A.I. Lecco, per premiare i giovani lecchesi che si erano particolarmente distinti con la loro attività. Il vero premio tuttavia consisteva nel guadagnare una certa notorietà nell’ambiente, che spesso li facilitava ad entrare nel prestigioso Gruppo Ragni. Cosa che avvenne puntualmente anche per Marco nel 1979, insieme all’amico Norberto Riva).
Eppure sulle prime tre o quattro fessure su cui ho messo le mani ho preso subito delle sonore “bastonate”. Allora… ho fatto un po’ di viette come potevo.

A proposito di Yosemite: è stato lì che si sono sperimentati i nuovi materiali per il “free climbing”, come le scarpette a suola liscia. Quando hai iniziato ad usarle?

Non ricordo proprio. So che ho avuto grandi difficoltà a trovarle, finchè ma le ha procurate il Valentino Cassin, quello del negozio di Lecco, figlio di Riccardo, importandole dalla Francia. Erano le E.B. Super Gratton; sicuramente devo averle calzate per la prima volta al Nibbio, la falesia dei Piani Resinelli.

A proposito di Francia: so che in quegli anni eri già andato in Verdon, dove è nata l’arrampicata sportiva in Europa. Cosa hai visto da quelle parti?

Infatti, in quel periodo sono andato anche in Verdon con amici bergamaschi: Agostino Da Polenza e Sergio dalla Longa. C’erano, forse già in quel primo viaggio od in seguito, il Raffaele “Lele” Dinoia ed il Sergio Panzeri, di Lecco.
Dopo le prime scalate nelle Gorges, mi convinco del tutto che eravamo rimasti indietro: nonostante tutte le nostre salite, nonostante avessi conosciuto ed arrampicato con grandissimi alpinisti italiani che rispettavo, era evidente che nell’arrampicata pura i francesi avevano una marcia in più.
Li vedevamo superare in libera dei passaggi che per noi erano proibitivi; infatti scalavano già sul 7a/7b (n.d.a.: VIII/IX grado) mentre in Italia eravamo ancora fermi a discutere se esistesse o no il settimo grado… Qui mi sa che abbiamo perso il treno, mi dicevo, anche se sapevo che in Italia c’era chi, zitto zitto, stava già puntando in alto. Come il Maurizio Zanolla “Manolo”.

Quale era il tuo livello in arrampicata?

Basso, almeno il mio. Diciamo intorno al 6b. Oltre non andavo; o meglio: ci provavo ma senza riuscirci. Eppure secondo me già a quei tempi da noi, intendo dire a Lecco, c’erano dei grossi potenziali inespressi, come nel caso di Sergio Panzeri e Lele Dinoia.
Però era come se fossero compressi sotto un coperchio che in qualche modo li bloccava. Avvertivo la sensazione che la mentalità lecchese fosse limitante, che frenasse cioè quella spinta innovativa che si stava invece sviluppando in altre zone. Sicuramente quelli che giravano se ne erano resi conto (non ero il solo a muovermi); i tempi stavano maturando in fretta.
E poi mancava il terreno di allenamento adatto (n.d.a.: a Lecco non c’erano falesie, se non i Nibbio, ancora attrezzato con i vecchi chiodi, ed il Sasso di Introbio anch’esso percorso da brevi vie di stampo classico), per non parlare delle nozioni di allenamento “a secco” specifico per l’arrampicata…

Oggi il 6b per molti è una difficoltà da “riscaldamento”.

Certo, sportivamente parlando adesso il 6b (n.d.a.: VII grado) è una banalità. Ma ormai si conosce la strada, e non si è più condizionati come una volta dalla barriera della difficoltà. Se sei in grado di allenarti nel modo giusto, se hai voglia di fare veramente fatica, oggi all’8a (n.d.a.: X grado) ci arrivi in quattro e quattr’otto.

Uno dei più importanti cambiamenti di mentalità nella nascente arrampicata sportiva è stata l’importanza di definire con precisione il grado di difficoltà, grazie anche all’invenzione della nuova “scala francese”. Mentre negli anni precedenti questo concetto è sempre stato abbastanza nebuloso. Tu che valore davi, e dai oggi, al “grado”?

Essendo stato uno sportivo ho sempre avuto ben presente il valore della prestazione, il “come” la si porta a termine. Se in gara sali una porta sei squalificato, se arrivi un millesimo di secondo dopo vuol dire che sei… secondo. Quindi ho imparato presto a conoscere la differenza tra il fare o non fare una via in libera: le regole erano chiare e c’era poco da discutere. E il grado, essendo un metro di paragone, ha la sua importanza. 
E’ vero che all’inizio, quando mi dedicavo esclusivamente alle salite “alpine”, la questione della valutazione del singolo passaggio la sentivo di meno. C’erano anche altri problemi: l’ambiente, la chiodatura, il pericolo. Poi iniziando a frequentare ambienti più “rilassanti”, con le prime chiodature a spit, avevo sperimentato anch’io che si poteva spingere sulla difficoltà pura con meno condizionamenti.

Ti ho sentito spesso sdrammatizzare sulla valutazione delle vie sportive proponendo una scala di difficoltà come per le piste da sci: azzurro: facile - rosso: difficile - nero molto difficile…

Massì… una provocazione buttata lì. Perché talvolta certe discussioni esasperate mi annoiano parecchio. Soprattutto quando alla base di una falesia senti gente accanirsi sul “+”da mettere o togliere al grado di una certa via.

Torniamo un attimo in Verdon: lì a fine anni ’70 hai visto un nuovo modo di interpretare l’arrampicata attraverso gli spit. Però in quegli anni c’erano altre storie, completamente diverse: i Sassisti ed Ivan Guerini in Val di Mello, quelli della Valle dell’Orco. E poi Finale, Arco…

Dappertutto c’era un gran movimento, e molti stavano sperimentando strade alternative. La Val di Mello l’ho frequentata scalando con i ragazzi di Sondrio, ed avevo già iniziato a visitare il finalese.
Poi, al Monte Bianco, ho avuto la fortuna di incontrare uno dei più grandi talenti che abbia mai conosciuto: Marco Bernardi, uno scalatore estremamente polivalente che già all’epoca faceva cose allucinanti. Grazie a Marco, torinese, ho potuto conoscere Gianpiero Motti, Giancarlo Grassi, quelli del “Mucchio Selvaggio”… e la Valle Dell’Orco.
Un altro personaggio-chiave per me è stato il Marco Pedrini, ticinese, anche lui un fuoriclasse su ogni terreno, con uno spirito molto positivo. Con lui ho fatto una delle prime ripetizioni di “Voiage selon Gulliver al Grand Capucin.
Tutti questi contatti mi hanno sicuramente aiutato ad aprire la mente, a toccare con mano quanto di nuovo stava succedendo. E siccome mi è sempre piaciuto mettermi in gioco, ho provato a confrontarmi con queste realtà. (n.d.a.: senza trascurare il grande alpinismo. Negli anni ’80 Marco Ballerini partecipa a diverse spedizioni in Patagonia: nell’83 al pilastro Nord Est del Murallon con Casimiro Ferrari, Ballerini e Fabio Lenti. Devono però anticipare il rientro dopo settimane di continuo maltempo; il pilastro viene risolto in extremis da Casimiro con Paolo Vitali e Carlo Aldè. Nell’84 un tentativo alla parete Nord Ovest del Piergiorgio; nell’86, in occasione del quarantesimo dei Ragni, una via nuova in condizioni proibitive alla parete Sud della Torre Centrale del Paine con Norberto Riva, Carlo Besana, Renato Da Pozzo e Dario Spreafico. E poi qualche viaggio in Himalaya ed altre salite nelle Alpi).
Tuttavia, sono sempre stato attratto anche dall’aspetto “filosofico” dell’Alpinismo. Mi interessa capire, oltre che scalare, e sicuramente due personaggi sono stati fondamentali per la mia formazione. Uno è stato Alessandro Gogna e l’altro Aldo Anghileri, ai tempi entrambi alpinisti di grande notorietà.
Con loro ho passato un’infinità di serate a parlare, accorgendomi che avevano una visione diversa dagli altri, decisamente proiettata in avanti. Molto stimolante.

Adesso sì che è il momento di parlare dell’arrampicata sportiva. In ogni zona c’è stato qualcuno che ha fatto da apripista, come una sorta di “pioniere”. A Lecco questo ruolo l’hai avuto tu…

Sì, è toccato a me. Ma la strada è stata lunga e ci sono arrivato anche con il contributo di quelli citati prima. Avevano tutti una marcia in più e io forse ho messo in pratica il loro pensiero. Ho fatto un po’ la parte del “manovale”.

Beh, per modo di dire. E’ vero però che ad un certo punto hai cominciato a “bucare” in prima persona. 

Al rientro dai miei viaggi ho iniziato a guardarmi in giro. Serviva un nuovo terreno, che fosse adatto per scalare su difficoltà superiori, e di conseguenza ci consentisse di alzare il livello. Ricordo in particolare, a proposito di nuovi stimoli, una visita istruttiva sulle torri di arenaria nell’ex Cecoslovacchia, più o meno nel 1980.
E’ stato un viaggio “di scambio”, come usava allora con le repubbliche “oltre cortina”, organizzato dalla Renata Rossi. Lì ho visto cose incredibili, vie durissime che i “locals” salivano con delle specie di ciabatte, proteggendosi con cordini annodati a mo’ di “nuts”, per non rovinare la roccia, molto tenera. Le difficoltà erano davvero alte, 7a, forse anche di più, soprattutto considerando con quel tipo di protezioni da paura, e la sensazione era quella che potevi farti davvero molto male. Abbiamo fatto quello che potevamo, però è stata un’esperienza molto interessante.
Tornato a Lecco, dicevo, ho cominciato a studiare alcune placche di roccia solida e compatta, a portata di mano, dove non aveva praticamente scalato mai nessuno. C’erano già delle viette di allenamento qua e là, magari con i chiodi a pressione, ma niente di più. Così ho provato a combinare qualcosa al Sasso di Introbio, a sinistra di una via del Don Agostino (n.d.a.: il fondatore del Gruppo “Condor” di Lecco). Sapevo che non si sarebbe trattato di una “via”, al massimo si poteva considerare una breve variante, visto che arrivava alla prima sosta dell’itinerario già esistente, però decisi lo stesso di calarmi dall’alto e mettere qualche spit.
E’ nato così “Oltre il tramonto”…Poi a ruota l’”Incubo motopsichico” sempre al Sasso, ed il “Vicolo della Desolazione” su una bella placca di piedi proprio lì di fronte, alla Rocca di Baiedo.

Col trapano? Che sensazioni provavi? In fondo per la nostra zona era una novità assoluta…

Quale trapano? Buchi col perforatore a mano e spit da 8 millimetri. Le prime sensazioni? Grande fatica, sia per chiodare che per provare a salire in libera… E qualche polemica. Questi miei esperimenti all’inizio sono stati molto criticati. Se cerchi sulle guide di allora, queste “vie” non venivano nemmeno citate, se non marginalmente. Posso anche capirlo.
I veri obiettivi di allora erano le prime ascensioni sulle grandi pareti, salendo dal basso cercandosi la via, anche a prezzo di rischi elevati. Calandosi e mettendo gli spit, sembrava che si profanasse l’alpinismo.Comunque non mi sono fermato… Anzi!

In effetti ricordo alcuni incontri-dibattiti a Lecco, in quegli anni, diciamo molto “accesi”. Vabbè… Comunque dall’1981 in avanti è iniziata l’arrampicata sportiva a Lecco.

Già; dopo Introbio, con Roberto Crotta, Fiorenzo Magni ed altri amici sono andato a chiodare al Nibbio ed al Lago.

Intanto le difficoltà crescevano…

Sì, volevamo misurarci con le alte difficoltà, quindi si cercavano le linee adatte allo scopo. Dall’83 all’84 sono nati i primi tiri di una certo livello. “Dormi Martina” a Introbio è sul 7b (1984), “Gli Antenati” al Nibbio è 7a+ e poi è venuto il Lago dove ho chiodato e liberato Ambarabà, 7a+, e Bella Otero, 7a+. Quindi è stata la volta dell’Antimedale dove ho attrezzato “Calypso” e “Cacauettes”, 7a.
Intanto si era formata una compagnia di chiodatori piuttosto agguerriti ed il numero di queste vie aumentava continuamente.

Alte difficoltà ma anche molto ingaggio. Negli anni successivi la tendenza generalizzata è stata quella di ammorbidire la distanza tra le protezioni, permettendo anche agli scalatori più tranquilli di avvicinare questo sport. All’inizio però erano dolori: prime protezioni altissime e moschettonaggi da cardiopalma.

E’ vero. Comunque da qualche anno nelle falesie di riferimento in Europa, Italia compresa, si sta tornando allo stile originale, rivalutando anche l’aspetto “mentale” dell’arrampicata sportiva. Personalmente mi motivano di più i tiri dove non c’è solo il grado da superare. La difficoltà delle moschettonature, per esempio, fa parte del gioco, ed anche la distanza fra uno spit e l’altro conta. Altrimenti tanto vale andare a fare le ferrate… Secondo me questo è un fattore importante.
Qualche anno fa ho chiodato un tiro ai Campelli, Cuore Infranto, 8a+, che mi ha procurato un po’ di critiche. Per me invece ha il suo fascino anche per il tipo di chiodatura, effettivamente molto “ingaggiosa”.

Lo stesso vale, immagino, per le vie di più tiri cosiddette “plaisir”…

Certamente. Per la mia professione di Guida Alpina mi è capitato di ripetere una marea di vie di questo tipo, al Bianco, al Sempione od in altre zone della Svizzera. Divertenti fin che vuoi, ma a me sembrano poco più che delle filate di spit. Preferisco allora stare in falesia a fare dieci tiri uno dopo l’altro; almeno negli “intervalli” mi siedo comodo a chiacchierare con gli amici.
Altro discorso per certe salite che hanno un impegno globale di tutt’altro tipo; ricordo in particolare “Elettroshock” e “Delta Minox” (n.d.a: entrambe nel Màsino ed entrambe aperte, tra gli altri, da Norberto Riva).

Chiaro il concetto. Allora, parlando di “vie”: con le grandi salite hai smesso?

Non proprio. E’ vero che la maggior parte della mia attività di arrampicatore, lavoro a parte, è in falesia, ma mi capita ancora di andare “in parete”. Una delle ultime è stato il Sasso Cavallo. Bel posto!
Tornando all’arrampicata sportiva nel lecchese, dopo i primi anni di esperimenti e le prime vie di una certa difficoltà, è arrivato anche l’8a. I primi tiri di 8a sono stati Hatupertu in Antimedale, Anche Qui e Slavation al Nibbio. Nel frattempo tanti altri si sono messi a chiodare, alzando contemporaneamente le difficoltà. 
Per passare su livelli superiori tuttavia si è dovuti ricorrere spesso allo “scavo”. Personalmente i tiri troppo scavati non mi esaltano troppo; d’altronde le nostre strutture non si prestano molto, a differenza di altre zone, per creare itinerari al top su appigli tutti naturali.

Già che parliamo di “top”, qual è il tuo? Ed oggi, a 50 anni, cosa cerchi nell’arrampicata?

Il mio massimo è stato l’8b. L’arrampicata però mi piace a prescindere dal grado in senso stretto; mi è capitato anche recentemente di salire dei 6c meravigliosi che mi hanno procurato grande piacere per la loro eleganza.
Scalare mi diverte, mi coinvolge, e cerco di visitare posti nuovi, le falesie più belle. Mi piace anche allenarmi in compagnia, qui in palestra come sui “blocchi”. Quindi non sono mai stato capace di passare le ore da solo a trazionare su un trave od a fare delle sedute “scientifiche” al pannello. Per me l’arrampicata è un’insieme di sensazioni a 360 gradi, e anche qui in palestra riesco a trovare una bella dimensione mentre mi alleno con gli altri ragazzi…
Oggi come oggi non mi preoccupo tanto di raggiungere chissà quali risultati, però mi sento sempre motivato a misurarmi con certe difficoltà. In queste ultime settimane, in falesia, ho provato quella bella sensazione di sentire che stavo facevo la “giusta fatica”, avendo addosso cioè quel filino di margine che mi ha consentito di divertirmi. 

Un filino di margine… Su che difficoltà?

Nel 2007 ho realizzato dieci, dodici 8a e tre o quattro 8a+. 

Ha beh… Mica male. A dimostrazione che l’arrampicata può essere uno sport molto “longevo”. Arriverà però il momento in qui capirai che stai calando; andrai avanti comunque? Anche sui 6a, i 5c?

Difficilissimo per me rispondere adesso. Sono uno che si ascolta momento per momento. Vedremo....

Hai ragione; domanda inutile.

No, non è vero. In realtà è una domanda che la maggior parte degli arrampicatori prima o poi si pone. In ogni caso, ho sempre rispettato di più chi fa la “Segantini” con passione (n.d.a.: la Cresta Segantini è una delle vie più facili – e più belle – della Grignetta, di II e III grado), piuttosto che quelli che si massacrano per fare il 9a e poi, una volta che lo raggiungono, smettono di colpo perché non gliene frega più niente. Personalmente, ho sempre vissuto l’arrampicata come complemento anche ad altre cose. E’ uno degli aspetti più importanti, per me; però non c’è solo quello.

Dai che siamo in chiusura… Prima una curiosità: quando ti incontro in falesia sei quasi sempre in compagnia di ragazze, mentre di solito i climber vanno in giro a coppie di rudi omaccioni assatanati.

Mah… Con una donna i discorsi sono più diversificati, piuttosto che con certi uomini che si rincoglioniscono un po’ troppo per il grado.

“Domandona” finale. Mi piacerebbe conoscere una tua valutazione su quello che sta succedendo nell’arrampicata sportiva, in generale, e nel lecchese in particolare.

In generale le capacità dei “top climber” hanno raggiunto livelli inimmaginabili. Molti di loro escono dal mondo delle gare ed in falesia fanno delle cose mostruose. La scorsa settimana Patxi Usobiaga si è fatto un 9a+ in pochi tentativi e poi, nella stessa giornata, una 9a. Qualche giorno dopo sempre lui ha salito un 8c+ a vista! Penso che non sia difficile capire dove stia andando l’arrampicata sportiva. 
I veri top climber sono pochissimi, comunque anche il livello medio si è alzato. Fino a pochi anni fa quando andavi al Nibbio a scalare alla sera eri praticamente da solo; in questi ultimi anni invece c’è gente su quasi tutti i tiri... E il Nibbio non è mai stato considerato una falesia “facile”.
Per quanto riguarda l’arrampicata sportiva lecchese, ho la sensazione che siamo ancora un po’ indietro, parlando in generale ovviamente. Lo sperimento anche qui in palestra, dove vedo che la maggior parte degli arrampicatori provengono da fuori città. Tuttavia ci sono dei giovanissimi di Lecco davvero bravi, che fanno ben sperare: Claudio Arrigoni, 20 anni, Martina Frigerio, 16 anni, Simone Riva, 19 anni, figlio del Norbi, Elisa Rota, 17 anni, Manuela Valsecchi, 18 anni.
Forse il problema, come ho detto all’inizio, deriva proprio dalla nostra storia alpinistica. Eppure secondo me questa potrebbe essere invece il nostro punto di forza, se solo riuscissimo a far tesoro dell’esperienza dei grandi personaggi che ci hanno preceduti senza sentirci condizionati.

La seconda generazione...
Lo Stefano Alippi

Marco BalleriniArmati di telecamera e cavalletto si parte per la Brianza alla ricerca della tana di Stefano Alippi. L’intenzione è di fare una chiacchierata, anche con lui, sull’origine dell’arrampicata sportiva nel lecchese. E poi, perché no, per parlare più in generale del nostro sport. Paolo, autista e tecnico videofonico della spedizione, ridacchia divertito…
-Sai, quando, ho detto che andavamo ad intervistare l’Alippi, tutti davano per scontato che intendessi il Gigi (il papà di Stefano)…
In effetti, a Lecco tutti si intendono di montagna e di alpinismo, per esperienza diretta o per sentito dire, ma è ancora abbastanza diffusa la convinzione che la storia dell’alpinismo e dell’arrampicata lecchese abbia raggiunto il culmine con il Cerro Torre di Casimiro Ferrari (1974) o poco oltre. Eppure, quello che è successo dopo è altrettanto importante, con il passaggio del testimone dalla migliore tradizione del passato all’arrampicata di concezione sportiva, che molto spesso ha attinto la spinta proprio dal grande alpinismo, o vi ritorna per spostarne il limite un po’ più avanti.
Ad un certo punto infatti la storia ha preso due strade divergenti, due linee che partono insieme, si separano per poi incontrarsi ogni tanto. Per stare ad esempi relativi al nostro territorio, Marco Ballerini e Norberto Riva hanno all’attivo un’attività alpinistica di primissimo ordine, arrivando poi a tirare le microscopiche tacche sulle falesie.
Altri hanno fatto il percorso opposto, come Cristian Brenna che dopo aver macinato una quantità incredibile di tiri sportivi estremi, si permette di andare a chiudere il contro (aperto dal Casimiro) sulla parete del Cerro Piergiorgio in Patagonia…. Una via prevalentemente in artificiale su terribili “expanding flake” lunghe decine di metri, tanto pericolose da non poter nemmeno pensare di tirarle in libera.
Poi ci sono gli scalatori puri, che hanno scelto di vivere la propria ricerca verticale esclusivamente (o quasi) sulle vie di arrampicata sportiva, i massi o le gare di arrampicata.
E’ questa la caratteristica del “nostro” Stefano Alippi, che dopo il periodo del moderno pioniere Ballerini, è diventato uno dei più importanti protagonisti lecchesi di questa particolare attività, raggiungendo una grande notorietà. Figlio d’arte, il padre è il Ragno di Lecco Gigi Alippi, gestore del rifugio omonimo ai Piani dei Resinelli, alla partenza del sentiero delle Foppe per il rifugio Rosalba in Grignetta, Stefano intraprende un’esperienza autonoma rispetto alla tradizione famigliare (e, in senso più largo, lecchese), incidendo profondamente sull’evoluzione dell’arrampicata sportiva. 
Una carriera che gli ha anche aperto le porte del Gruppo Ragni, come primo scalatore sportivo ad entrare in questo prestigioso sodalizio.

La prima curiosità è venuta fuori proprio durante il viaggio: qualcuno si è stupito che volgiamo intervistare Stefano Alippi e non Gigi. Il fatto di avere un padre molto noto in ambito alpinistico quanto ha influito nel tuo approccio all’arrampicata?

In realtà poco; ho qualche vago ricordo dell’infanzia quando, a cinque o sei anni, mio padre mi aveva portato a scalare la Punta Rossi (n.d.a. una guglia di 15 metri a ridosso della parete NE del Nibbio), ma non ha mai forzato perché io arrampicassi. 
Poi sui dodici anni ho iniziato a seguire, così per gioco, il Matteo Benini. Lui e Riccardo Gatti passavano molto tempo ai Resinelli quando Matteo studiava per la tesi di laurea, ed andavano ad arrampicare nei momenti di pausa. Andavo con loro solo fino alla base delle pareti della Grignetta, ma niente di più.
I primi passi in roccia li ho mossi in seguito al Nibbio, sempre con loro, e sempre al Nibbio ho conosciuto il Marco Ballerini; intanto però l’arrampicata stava diventando per me una cosa sempre più importante.
Solo dopo questa fase ho fatto qualcosa in montagna con mio padre.

Avevo in mente la solita domanda “come hai iniziato a scalare?”… Mi hai già risposto, comunque è una sorpresa sapere che hai cominciato in modo del tutto casuale, nonostante avessi un papà forte alpinista.

In realtà è stato un apprendistato molto “compresso”: nel giro di pochi mesi ho iniziato a scalare con Matteo, poi ho conosciuto il Marco Ballerinied il suo entourage: il “Cipo”, Paolo Crippa, il Norberto Riva e gli altri. Il terreno d’azione era principalmente il  Nibbio.

Quindi hai saltato a piè pari il classico inizio con la scuola di roccia e le uscite sulle “normali” delle guglie della Grigna, ed hai subito messo le mani su una falesia.

E’ così, però non fraintendiamo: l’approccio è stato “classico“ lo stesso. Ho fatto in tempo anch’io a fare le vie del Nibbio con le staffe, anche perché a quell’epoca pesavo novantadue chili…

Non dirmi però che il Ballera ti portava fare lo Spigolo del Nibbio (n.d.a. una delle poche vie di III e IV della struttura).

Questo no, ma quando ho iniziato ascalare col Marco ero già “evoluto”. La prima gavetta l’ho fatta con Paolino Stoppa che allora era già uno forte, scalava sul 6c/7a. Erano i primi anni ’80, quando sono arrivati anche il “Ciusse”, Giuseppe Bonfanti, ed il Massimone, Massimo Colombo.
Era comunque il periodo in cui si stava sviluppando l’arrampicata libera e la mentalità era già avanti. Così mi sono adeguato in fretta.

C’è gente che ci ha messo quindici anni.

Sai, la mia fortuna è stata che andavo lì tutti i giorni, visto che abitavo ai Resinelli dove il papà gestiva un rifugio. Un po’ trascinandomi, un po’ facendomi tirare, vista la mia stazza, ho salito le vie storiche; io strappandomi su tutto quello che trovavo, mentre gli altri provavano a passare senza usare i chiodi. Poi ho deciso di perdere peso e sono calato di venti chili nel giro di tre-quattro mesi… ritrovandoni a passare dal V/A1 al 6c senza quasi accorgermene.
Altra grande fortuna, come ho già detto, era che stavo partecipando ad un periodo in rapida evoluzione, ed ero in contatto diretto con gente che stava sperimentando un nuovo modo di arrampicare.

Come ci si rapportava con l’arrampicata libera in quegli anni? Si andava a scalare già imponendosi di non usare i chiodi, od era una specie di sfida casuale?

All’inizio era più una sfida; quando qualcuno di noi riusciva a passare in libera, per gli altri era una motivazione in più per provare a loro volta. Comunque ognuno la viveva a modo suo. Si trattava però anche di una specie di contrapposizione con il vecchio stile. Sempre in modo amichevole, intendiamoci.
Ricordo il Ballera e il “Tono”, Pierantonio Cassin, che erano sempre “sotto” con gli altri che venivano al Nibbio: chi si dannava a non tirare i chiodi era preso in giro da quelli che invece salivano alla vecchia maniera. Poi col Tono abbiamo iniziato a levare i vecchi chiodi per sostituirli con gli spit… Se ne mettevano un po’ alla volta per non scontrasi troppo con i classiconi; spesso si provava a liberarle anche con le protezioni originali. Ogni tanto qualcuno borbottava un po’, ma alla fine tutte le vie sono state richiodate.

Già. A proposito, chi è stato il primo a salire in libera le “classiche” Cassin, Boga, Ratti? (n.d.a. le prime vie del Nibbio, aperte negli anni ’30 da Riccardo Cassin, Mario dell’Oro, Vittorio Ratti).

Marco Ballerini, che nel frattempo aveva chiodato a spit alcuni tiri sui muri fuori dalle fessure. Quando sono arrivato io c’era già Astroboy, un bel 6c, ed il Ballera aveva già salito la fessura Sant’Elia, 7a, proteggendosi ancora con i chiodi arrugginiti ed i cunei di legno. Anch’io l’ho fatta con quelle protezioni. Rimanevano ancora da liberare alcune delle vecchie vie in artificiale, tra qui la più famosa era la Mc Kinley. 
Nel 1986, in occasione del Quarantesimo dei Ragni, era venuto al Nibbio Heinz Mariacher, ed aveva fatto un tentativo proprio su quella via dicendo che sarebbe stato possibile farla tutta in libera. Lui era riuscito a passare sul primo muro; rimaneva lo strapiombo e la placca finale, ma intanto ci aveva dato un bello stimolo. 
Infatti abbiamo cominciato a provare e alla fine ne siamo venuti a capo: 7c.

Restando al Nibbio, quando hai iniziato a chiodare qualcosa di tuo?

Dopo i primi tiri del Ballera, Astroboy, BoDerek, Un Coin a Ben, il resto l’ho chiodato quasi tutto io, da solo o con il Marco stesso ed il Norberto nel giro di un anno, un anno e mezzo. Nel 1989 Andrea Di Bari attrezza Anche Qui, e subito iniziamo a provarlo.
La prima “libera” è toccata a lui, sul primo 8a del Nibbio. Per un soffio questo onore non è toccato a me… Diciamo che me la sono giocata male perchè, quando finalmente ero riuscito a superare il “chiave”, mi sono accorto che non avrei potuto proseguire in catena. Ero così convinto di dovermi fermare al solito punto, quello più difficile, che non mi ero portato rinvii a sufficienza! Magari non sarei riuscito lo stesso a chiudere il tiro; comunque mi sono subito rifatto la stagione successiva.

Lo spirito di queste chiodature, immagino, era la ricerca di vie sempre più difficili.

Sì, certo. Allora l’obbiettivo era chiodare qualcosa che fosse più impegnativo di quanto era stato fatto in precedenza. Così ho individuato una linea che mi sembrava più dura della Mc Kinley: “Il Pigazzo in decadenza”, a destra degli Antenati; 7c+.
“Il Pigazzo” sono io, la decadenza è riferita al fatto che si tratta di un tiro “ricercato”, dove ho scavato un appiglio nella roccia liscia per collegare la sequenza di movimenti; probabilmente la prima presa scavata in tutto il lecchese.

Oltre al Nibbio c’è stato in contemporanea il periodo della Bastionata del Lago.

Per forza, d’estate si andava al Nibbio, mentre d’inverno abbiamo cominciato a chiodare al Lago, dove fa decisamente più caldo.

E per quanto riguarda le altre falesie, fuori dalla nostra zona? Hai iniziato subito a frequentarle?

Non proprio, la prima volta che sono uscito dal lecchese, intorno ai diciotto anni, sono andato ad Arco con il Marco Ballerini ed il Tono. Lì c’erano Bassi e Manolo; altra gente l’ho conosciuta quando ho iniziato a fare le gare di Coppa Italia. E’ stata anche un’occasione per andare poi a casa loro, conoscendo falesie nuove.

A già: le gare…

Sono stato alla seconda edizione di “Sport Roccia”, nel 1986 a Bardonecchia, che è stata la mia prima gara in assoluto. Era una gara di Coppa del Mondo, al cui interno è stata disputata una prova del Campionato Italiano, 
vinta da Bassi.
Come in quasi tutte le altre aree d’arrampicata, anche nel lecchese l’evoluzione dell’arrampicata sportiva ha preso due direzioni diverse: da un lato quelli che hanno attrezzato nuovi itinerari cercando di alzare il livello, dall’altro i chiodatori di falesie più popolari. Cosa ne pensi?

Per quanto mi riguarda, ho partecipato alla prima delle due; ma c’erano diverse situazioni che ci spingevano in quella direzione: la nuova mentalità che si stava sviluppando, un terreno praticamente “vergine” dove applicarla, il contatto con i più forti scalatori di altre zone, l’allenamento, le gare.
L’innalzamento della difficoltà richiedeva però forti stimoli, cioè posti sempre nuovi, senza i quali sarebbe mancata la motivazione per progredire. Così quando in una falesia si esaurivano le possibilità, si andava a cercarne un’altra. Tuttavia l’arrampicata nel lecchese per il novanta per cento si svolge su placca verticale. Ho iniziato quindi una ricerca mirata proprio ad un terreno diverso, quello strapiombante appunto, attratto dalla prospettiva dell’alta difficoltà. 
Da noi le strutture veramente strapiombanti sono piuttosto rare, ma in compagnia di Norberto Riva ne abbiamo trovate due sopra Mandello: Lo Strapiombo e la Grotta. Non è che siamo comodissime; sono un po’ fuori mano, per l’ottica sportiva, inoltre c’è voluto un gran lavoro. Per farti capire: la Grotta di Mandello era conosciuta come Grotta dell’Edera…
Le tappe sono state quindi: Nibbio, Bastionata del Lago, Settore Strapiombi sempre al Lago, Strapiombo e Grotta di Mandello fino ad arrivare al Sasso Alippi ed agli Scudi di Val Grande, dove è stato fatto di tutto e di più… (appigli scavati, incollati e via discorrendo).
Per quanto riguarda le falesie più facili, comunque, le ho sempre viste di buon occhio, perché contribuiscono a creare interesse verso l’arrampicata. Permettono ad un sacco di gente di avvicinarsi a questo sport; creano “movimento”, insomma, da cui prima o poi salta sempre fuori qualcuno che ha voglia di impegnarsi davvero e raggiungere i massimi livelli.

Quindi è una cosa positiva che abbiano convissuto queste due filosofie...

Sicuramente. Forse l’unica pecca è che nella creazione di alcune delle falesie più popolari si è cercato di addomesticare troppo quello che era già relativamente facile, interpretando in maniera un po’ distorta il periodo in cui erano in voga le prese scavate.
Non ne faccio una colpa, si è trattato di un momento ben definito. Oggi, che di siti alla portata di tutti ne esistono a centinaia, per chiodarne uno nuovo non ha più senso scavare. Quindici-vent’anni fa si poteva capire, oggi no; anche per quanto riguarda le alte difficoltà.

Quali sono stati i tuoi punti di riferimento, i personaggi che ti hanno stimolato di più, e quali gli itinerari più significativi al tuo attivo? E poi, cosa intendi per bella arrampicata?

Sicuramente il Marco Ballerini ed il Cristian Brenna, una persona molto positiva e motivante. Ho anche molta stima di Gnerro. Ma ce ne sono stati ovviamente tanti altri. E poi c’erano i miti... Il mio penso sia stato Tribout, che penso sia stato un riferimento per molti di noi.
Per bella arrampicata intendo quando la difficoltà è “agreable”, per dirla alla francese, cioè piacevole, progressiva, senza forzature. Per fare esempi sul territorio penso agli Antenati al Nibbio, Maracaibo al Lago, Fotonica a Cornalba. Non sono certo tiri estremi, ma rendono l’idea.
I top-tiri invece sono spesso una sofferenza; ce ne sono anche di belli, e da noi mi viene in mente System Task o Francesca alla Grotta di Mandello.
La sofferenza di per sé non la trovo piacevole… Su Les sindacalist a Cornalba ho provato decine di volte prima di riuscire, ed ovviamente mi ha dato soddisfazione, ma per quanto riguarda la bellezza del tiro.. non so… Molto forzato, complicato…
Se penso a Kalimnos, il fatto che sia considerato uno dei siti di arrampicata sportiva tra i più belli è proprio perché la scalata è “dolce” anche sulle alte difficoltà, non è mai a strappi. Ci sono tanti settori di Arco con queste caratteristiche. Per quanto riguarda Lecco, penso sempre che una delle strutture migliori sia ancora il Nibbio.

Oggi scali solo per tuo piacere, è terminato infatti il tuo periodo ”professionale”, e a quanto mi risulta ancora su livelli molto buoni. Come ti mantieni?

Mah, diciamo di sì, anche se per quanto riguarda il livello…. Il top l’ho raggiunto su Les Sindacalist (8c+, qualcuno parla di 9a), poi sono andato in calando fin nei dintorni dell’8a. 
Mi alleno una o due volte alla settimana in palestra a Milano quando esco dal lavoro, ed arrampico nel fine settimana. Il livello di base c’è e, anche se al top non arrivo più, mi interessa scalare su difficoltà medio-alte senza fare troppa fatica. E’ un compromesso molto piacevole…

Questo però può essere anche un limite… 

No, dipende. Lo vedo anche con la gente che frequento in palestra a Milano. Bisogna riuscire a sganciarsi un po’ dagli obbiettivi, nel senso di pensare alla scalata come a qualcosa in progressione senza troppe forzature. Se cominci a considerare l’arrampicata come uno svago, magari anche nei ritagli di tempo nel dopolavoro, e trovare soddisfazioni, per esempio, su un 6c che non ti obbliga ad una fatica eccessiva per raggiungerlo, va benissimo lo stesso.
Lo vedi proprio in quelli che frequentano le falesie “facili”: vanno a Galbiate, si divertono sui 6a/b/c, poi magari all’interno della giornata provano il 7a… E’ un bel modo di intendere l’arrampicata, poco frustrante.
Ci si può sentire appagati anche nell’andare per la centesima volta nella solita falesia a fare il solito tiro. Subentrano altre motivazioni, che nel nostro sport non sono unicamente il raggiungimento della massima difficoltà.
Personalmente provo molto piacere tornare in un posto come la Bastionata del Lago, che conosco a menadito, con il Tono ed altri amici, anche se in quella falesia non ho più tiri da “realizzare”. L’arrampicata per me rappresenta qualcosa di più….
 

Il punto di vista di un chiodatore a 360 gradi
Paolo Vitali

Fin qui abbiamo parlato di arrampicata sportiva, intendendo soprattutto quella che si svolge in falesia, e  nel libro è stato dato ampio spazio anche a chi ha attrezzato i siti di arrampicata del lecchese.
Paolo Vitali compare come chiodatore di un paio di siti, Le Torrette e la Pala del San Martino, tuttavia il suo contributo alla storia verticale delle pareti intorno a Lecco si è rivolto soprattutto all’apertura di vie di più tiri, dal basso e col trapano.

“Apritori” si nasce

Marco BalleriniRipensando allo spirito ed alle motivazioni che mi hanno sempre spinto nella ricerca di nuove vie e falesie, mi viene da pensare che: apritori/chiodatori si nasce! 
C’è un qualcosa “dentro” che spinge alla spasmodica ricerca di novità, e questo in generale negli aspetti della vita quotidiana così come nell’arrampicata. E’ così che ti ritrovi a camminare sempre con la testa per aria, immaginando linee ideali ed estetiche che solcano le pareti più lisce, e non ti darai pace finchè non ci sarai passato.... E’ un tarlo, una fobia che ti divora e non ti da pace, perchè prima di terminare una delle tante linee immaginate ne avvisti già altre tre, e la lista dei sogni continua ad allungarsi.
Le mie prime esperienze di apertura di vie nuove risalgono ai lontani anni 1982/83, all’età di 18 anni: “Mary Poppins” alla Corna di Medale; “Pucci Pucci”, “Quo Vadis” e “La Placca del disoccupato” all’Antimedale; il “Diedro Mezzaluna” alla parete di Versasio; “Papillon” alla Punta Centa; “Chrisys” ai Torrioni Magnaghi, per finire con l’allora remota e complessa “Aspes” al pilastro nord-ovest del Pizzo d’Eghen. Solo “Mary Poppins” e il “Diedro Mezzaluna”, richiodate recentemente, hanno resistito agli anni, le altre sono state dimenticate o ricoperte da altre vie più o meno nuove “aperte” a fix, anche dall’alto. 
Lo stile di apertura di quei primi tempi si rifaceva alla mentalità classica, salendo le zone lasciate libere dalle vie precedenti, mentre su pareti e pilastri “vergini” si cercava la linea più debole, usando quasi esclusivamente protezioni naturali (friend e nut) o chiodi. Solo dove proprio non se ne poteva farne a meno si piantava uno spit da 8mm con il punteruolo a mano. Lo stesso valeva per le soste. 

Ma qualcosa stava cambiando, gli spit aprivano le porte a nuove, enormi potenzialità, ed anche nel lecchese nascevano le prime vie di arrampicata sportiva, per il momento solo chiodate dall’alto. 
A fine ’83 anche noi provammo quest’esperienza alla Bastionata di Val Verde, una compatta placconata con accesso dai Piani Resinelli. La nostra cultura alpinistica si ribellava un po’ al concetto di chiodatura dall’alto, ma l’esigenza di un disgaggio preventivo della linea individuata, e le difficoltà per i tempi molto elevate, ci fecero optare per la nuova tecnica. Questa parete rappresenta però l’unico episodio di chiodatura dall’alto della nostra attività; solo nel 2003 la riprendemmo per richiodarla aggiungendo un paio di vie a lato; questa volta dal basso.
Dalla fine del 1984 a tutti gli anni ’90 tralasciai le aperture nel lecchese, troppo “preso” dalle nuove ascensioni in Val di Mello ed in Val Masino, e dalle spedizioni extraeuropee. 
Nel Masino trovai il mio terreno ideale: un po’ scarso nella forza pura delle braccia, ma dotato di buon equilibrio e self-control, le placche granitiche di aderenza o comunque appena sotto la verticale, mi offrirono un vantaggio rispetto a molti altri scalatori. Il periodo storico era adatto alla scoperta di una infinità di cime e pareti dove le linee sulle placche erano state tralasciate perchè reputate impossibili, ma la nuova tecnica di aderenza e la chiodatura a spit dal basso cambiava gli orizzonti!  Ma la mia origine era stata il calcare, ed al calcare feci poi ritorno, applicando quanto appreso sulle placche della Valle.
Nel 1990 Sonja ed io ci sposiamo e da allora viviamo a  Ballabio, proprio ai piedi di una fascia rocciosa alle pendici del Monte Due Mani, l’anno successivo cominciammo a ripulire meticolosamente quelle rocce, e la vegetazione alla base. Un lavoro improbo, ma che portammo avanti proprio per via della vicinanza e comodità. Chiodammo il primo settore ancora con il punteruolo a mano, ma finalmente nel 1994 ci venne in aiuto un trapano a batteria. E’ la svolta! Con un lavoro continuo negli anni successivi i monotiri si moltiplicano fino a raggiungere il fatidico numero 100: è nata la falesia delle “Torrette”.
Nello stesso 1994 allo Zucco di Teral, una parete tanto bella quanto evidente ma ignorata, sperimentammo per la prima volta l’apertura dal basso di vie di più tiri con il trapano: tutta un’altra dimensione. Le vie risultano più sicure, nonostante le difficoltà complessive ed obbligate molto superiori.
Nel ’95 è la volta di “Antiche Tracce” ai Magnaghi, ma l’esperienza non ci appaga molto. Ritengo riduttiva l’apertura di vie su strutture già sfruttate: una via nuova su un torrione della Grigna molto famoso, due metri a sinistra e tre a destra di altri itinerari preesistenti non può dare nulla di nuovo, così ci concentriamo nella ricerca di pareti trascurate… e spesso un po’ più “scomode”.
Nel ’96 una gran fatica per aprire e ripulire “Altolario” alla Parete Rossa del San Martino; e nel ’97 “Giochi di potere” al Torrione di Val Farina. Due grandissime esperienze e soddisfazioni, che ci fanno però capire l’enorme lavoro necessario per valorizzare strutture sconosciute nel territorio lecchese, dove la roccia in genere necessita un gran lavoro di disgaggio e pulizia. 
Nel ’96 torniamo in Grigna per aprire “Zerowatt” alla Mongolfiera, e nel ’97 completiamo il lavoro allo Zucco di Teral. Il 1998 ed il ’99 sono dedicati al bel calcare della Corna di Bobbio con “Sindrome verticale” e “Scacco Matto”; un’altra struttura poco conosciuta, dove il lavoro di pulizia e “gardeing” è forse superiore alla fatica dell’apertura!
Ma è nel 1999/2000 che ci togliamo la più bella soddisfazione delle nostre vie nuove nel lecchese al Dente del Lupo. La struttura è un pilastro nascosto fra gli anfratti della Val Boazzo, tra il Monte Due Mani ed il Resegone. Sonja ed io vi apriamo ben quattro vie, su bellissimo calcare, unico “neo” un avvicinamento con breve zoccolo, che fin’ora ha limitato molto le ripetizioni. Da un lato ci dispiace che questo “gioiellino” non abbia riscosso la meritata popolarità, ma dall’altro siamo sicuri che, quando ci torniamo, troveremo la massima tranquillità.
Molto più successo hanno riscosso le bellissime e comode vie aperte alla Bastionata del Lago fra il 2002 ed il 2006: Panoramix, Breva & Tivan, Chelidonia Express e Gengis Trip. La struttura è talmente evidente che non poteva non attirare l’interesse dei climber lariani. Ma forse non è sempre evidente ai ripetitori l’enorme lavoro di pulizia che si sono resi necessari per rendere godibili queste vie!
Ed è questo lo spirito che mi auguro prevarrà nel futuro delle aperture, soprattutto nel lecchese. Durante tutti questi anni, in cui mi sono dedicato all’apertura di molte vie nuove, ma anche alla ripetizione di decine di itinerari sportivi sulle pareti della Svizzera Centrale, sono arrivato alla convinzione che prima di aprire una via, mi devo mettere nell’ottica del ripetitore. Che piacere ci può essere nell’andare a salire un itinerario tra blocchi instabili, zolle erbose e chiodatura precaria? 
Occorre quindi sacrificio e fatica per cercare di lasciare la via nelle migliori condizioni e con protezioni affidabili; un lavoro che pochi sono disposti a sobbarcarsi!
Per chiudere la carrellata delle nostre “nuove vie lariane”, nel 2003 saliamo “L’altra faccia della Grigna” alla Torre Costanza, una parete già rinomata, ma con uno spazio “bianco” che ci ha regalato una linea molto bella e apprezzata dai ripetitori! 
E che dire delle falesie? Per la mia generazione la falesia è stata una conseguenza dell’alpinismo, all’inizio per allenarsi durante tutto l’anno, e solo in seguito come “fine”, per il gusto di misurarsi con la difficoltà pura senza pericolo! Per le nuove generazioni il trend è l’opposto, nel senso che tutti o quasi cominciano in palestra, naturale e/o sintetica, e poi solo alcuni proseguono con l’alpinismo, o con l’arrampicata ad alto livello in parete. Per tutti questi giovani l’arrampicata in falesia rappresenta quindi la principale, se non l’unica, meta della propria attività. 
Personalmente ho cominciato tardi ad attrezzare monotiri, e devo dire che è una attività tanto interessante quanto purtroppo piena di contraddizioni ed a forte rischio di “estinzione”, almeno per quanto riguarda il lavoro di volontariato spinto unicamente dalla passione.
Nel 2004 abbiamo completato la pulizia e la chiodatura di una nuova falesia alla “Pala del San Martino”; palese dimostrazione che ancora oggi esistono belle strutture, comode ed evidentissime, che possono regalare grandi soddisfazioni. Anche qui un lavoro ciclopico di disgaggio e pulizia, per di più autofinanziato! 
Bisogna però dire che al di là della gratificazione personale, nel vedere che il proprio lavoro viene gradito, i ritorni sono pochi...... In genere, chi apprezza, arrampica e tace.... mentre è molto più facile trovare chi critica pur non essendosi mai sporcato le mani per pulire o chiodare. Il fix messo troppo basso o troppo alto, il ciuffo d’erba che infastidisce (provare a strapparlo!?...) e via discorrendo. 
In un periodo in cui, finalmente, alcuni enti hanno finanziano il ripristino di vecchie falesie o di itinerari in montagna, spesso mi chiedo che senso possa avere spaccarsi le ossa e spendere quattrini per preparare il divertimento di altri, che per di più non riconoscono il lavoro svolto. 
Forse però è importante che ci sia ancora l’impegno spontaneo e volontario di climber visionari che ci regala qualche gioiellino dal carattare particolare e unico; altrimenti si rischia, con le riattrezzature professionali, un’eccessiva standardizzazione degli itinerari di arrampicata.
Punti interrogativi che pesano sullo sviluppo dell’arrampicata sportiva, visto che al momento sembra prevalere l’idea degli interventi completamente sovvenzionati!
Naturalmente questi sono solo dubbi personali, cha magari possono servire ad una riflessione per cercare soluzioni per il futuro. Per il momento si continua così..... 
Le strutture vergini sono ben lungi dall’essere esaurite, bisogna saperle vedere, e poi avere la voglia di sacrificarci molto tempo, sia per divertirsi ad aprire, ma anche per renderle poi “godibili” ai ripetitori! Occhi aperti!! Paolo Vitali.

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