L’INIZIO DELLA STORIA. La mia prima esperienza sulla
roccia è del 1979, quando ho salito la Ferrata del Centenario al Passo del Fò
sul Resegone. Da solo, senza alcuna attrezzatura né esperienza. C’è da dire
però che fin da ragazzino amavo arrampicarmi; sugli alberi, sui tetti o dove
capitava, e seguivo spesso mio papà, che faceva il contadino, quando andava nei
boschi a raccogliere la legna. Il giro in Ferrata mi era piaciuto, e
presto ho iniziato a interessarmi all’arrampicata. Conoscevo Danilo Valsecchi e
Silvano Colombo, due alpinisti lecchesi che già scalavano, i quali mi hanno
avvicinato a questa attività portandomi sull’Antimedale, la parete vicina alla
Corna di Medale allora da poco “scoperta”, oppure sulle pareti dei Condor di
Lecco (i ragazzi del sacerdote scalatore Don Agostino Butturini) in Valsassina:
il Sasso di Introbio e la Rocca di Baiedo. E naturalmente sulle classiche della
Grignetta.
Insomma: un inizio molto simile a
quello di altri ragazzi lecchesi di quel periodo. Dopo nemmeno due anni che arrampicavo,
nel 1981 ho aperto due vie sull’Antimedale: Sentieri Selvaggi con Dario
Valsecchi Spillo e Apache con Daniele Chiappa Ciapìn, forte
alpinista lecchese già affermato (è stato uno dei quattro in cima al Cerro
Torre nel 1974, poco più che ventenne, nel corso della prima salita della
parete Ovest con la spedizione del CAI Lecco – Gruppo Ragni). Daniele, un po’
più grande di me, era molto vicino a noi giovani scalatori, che lo guardavamo
con grande ammirazione. Ma a Lecco se eri uno scalatore eri
anche alpinista; infatti, nel 1981 ho partecipato ad una importante impresa: la
prima invernale della Via del rifugio al Croz dell’Altissimo, nelle
Dolomiti di Brenta, con gli amici lecchesi Danilo Valsecchi e Luca Borghetti:
una difficile salita lungo 1000 metri.
Quelli erano anni in cui tante cose stavano
cambiando, in alpinismo e in arrampicata, a partire dal modo di andare in giro;
io scalavo con i pantaloni lunghi bianchi, i nuovi ancoraggi “veloci”, i dadi e
gli “eccentrici”, e la fascia nei capelli… Che allora portavo piuttosto lunghi.
Non si parlava ancora di arrampicata
sportiva [Nota: il termine diventerà di uso comune negli anni successivi alle
prime gare di Sportroccia del 1985], ma anche nel lecchese, come in
tanti altri posti, c’erano pareti dove già si scalava in modo diverso rispetto a
quello a cui si era abituati sulle
vie classiche delle Grigne o della Medale. Si cercava un terreno alternativo,
vicino al fondovalle o addirittura alle periferie delle città; pareti senza una
vetta come l’Antimedale o le strutture della Valsassina salite dalla metà degli
anni ’70 dai ragazzi del Gruppo Condor di Lecco.
Poi
si andavano a visitare le “nuove” pareti allora già famose: quelle di Finale
Ligure, di Arco o del Verdon. Si sentiva sempre più spesso parlare di
arrampicata libera e di scarpette morbide con la suola di gomma liscia, come le
“EB Super Gratton”. I miei compagni di allora erano Marco
Ballerini Bàllera, Raffaele Lele Dinoia, Bruno Tassi Camòs,
Sergio Dalla Longa, Mario Canali. In quei primi anni ’80 si girava parecchio,
accumulando un sacco di esperienza visitando posti sempre nuovi dove c’era un
grande movimento innovativo, che riguardava anche l’attrezzatura da scalata.
Fondamentale è stato il passaggio dalle pedule rigidissime con la suola di
gomma scolpita, come le Asolo con la lamina d’acciaio, alle scarpette. Un
cambio di impostazione radicale, che sperimentavo ogni volta che ripetevo vie
come la Dinoia o la Chiappa in Antimedale, utilizzando queste calzature che ti
facevano “sentire” l’appoggio del piede sulla roccia.
Ma la grande rivoluzione è arrivata
con l’utilizzo di un nuovo tipo di ancoraggio, lo Spit, per “chiodare” brevi
vie o addirittura solo dei “monotiri”, singole lunghezze di corda di 20/30
metri, che ho visto per la prima volta al Sasso di Introbio in Valsassina, sui
tiri chiodati dal Bàllera vicino alle vie dei Condor, oppure ad Arco e Finale. È
così che mi è venuta l’ispirazione di chiodare anch’io qualcosa nel lecchese
anche se, prima di quel momento, non avevo mai provato a scalare su queste
prime vie a Spit. In quel periodo (dal 1984 al 1987)
lavoravo nel magazzino della ditta Cassin a Valmadrera, dove ho avuto
l’occasione di conoscere i nuovi attrezzi da arrampicata, tra i quali gli Spit
ed i Fix, e ho visto passare alcuni dei più forti e più conosciuti scalatori
del momento: Heinz Mariacher, Luisa Jovane, Maurizio Zanolla “Manolo”,
Catherine Destivelle, Andrea Di Bari, Bruno Pederiva. Naturalmente ho potuto
conoscere anche Riccardo Cassin, che andava e veniva dall’azienda. Una bella
persona, Riccardo, alla mano e disponibile. E soprattutto per uno come me, di
Lecco, che iniziava a scalare in quegli anni, una figura mitica. Insomma, con tutti questi stimoli mi
sentivo pieno di curiosità e di voglia di misurarmi con queste novità.
1985/1986,
parete del Melgone sulla sponda occidentale del lago di Lecco (dove
passa la galleria della vecchia strada per Bellagio, a pochi chilometri dalla
città): ecco il posto adatto al mio primo progetto. Dovevo però trovare il
sistema di arrivare sopra la placca, per attrezzare le soste e poi calarmi e
chiodare. Così, improvvisando un po’, salgo una ripida rampa fuori dal terz’ultimo
finestrone della galleria, fino ad una stretta cengia a picco sul lago.
Assicurazione: zero… Questa è stata senz’altro la parte più pericolosa del mio debutto
come chiodatore! Nacquero così i miei primi tiri, che avevo fatto partire da
punti di sosta a pelo d’acqua. La chiodatura avveniva a mano, con mazzetta
pesante e punteruolo per fissare gli Spit Roc con bussola dentellata, cuneo di
espansione e piastrina da avvitare, che mi avevano passato degli amici
scalatori. L’esperienza mi era piaciuta, ma volevo confrontarmi con un vero
progetto tutto mio, su una falesia importante.
In quel periodo, a Lecco, di settori
attrezzati per l’arrampicata sportiva ce n’erano pochi: il Sasso di Introbio,
il muro di “On the Road” al lago (più un paio di altre strutture nelle
vicinanze), l’Antimedale, il Nibbio. Sapevo però che c’era una bella parete
sopra la frazione di Lecco, Versasio, alle pendici del Pizzo d’Erna verso
il Resegone, dove Don Agostino Butturini con Paolo Galeazzi e Pietro Corti, e
Paolo Vitali con Luigi Fantoni, avevano aperto alcune vie di stampo alpinistico
nei grandi diedri-camini che solcano la parete. Un altro lecchese, Gianni Invernizzi,
aveva chiodato un breve tiro sportivo di 15m su un piccolo bombamento di ottima
roccia a buchi ciechi. Ho riattrezzato così l’itinerario del Gianni,
allungandolo e battezzandolo Scoobidou. Ma era solo l’inizio.
La falesia è molto grande e io ero da
solo, ma la cosa non mi spaventava. Anzi. Dopo aver chiodato il primo settore, Silverado
[Nota: il settore prende il nome da uno dei tiri più belli della falesia,
su un muro verticale a tacchette e gocce molto tecnico e continuo. 7a+), mi
sono spostato a sinistra sui settori Western e Avalon, dove ho
attrezzato itinerari anche di due o tre tiri, e infine sul settore all’estrema
sinistra, Mustrulend. A Versasio ho cercato così di fare
qualcosa di nuovo, per contribuire allo sviluppo dell’arrampicata sportiva nel
lecchese, oltre che, ovviamente, per scalarci anch’io cercando di migliorarmi e
di “alzare il grado”. I tiri sono sempre molto verticali e continui, su
difficoltà tra il 6b e il 7a/7b. Pochissimi i tiri facili. È lì che ho iniziato
a usare il trapano (di seconda mano) ed i Fix, acquistando i tiranti ma
utilizzando piastrine “di recupero” o artigianali.
DOVEVO PROCURARMI IL MATERIALE… Ho capito subito però che, se
volevo continuare seriamente, avrei
dovuto trovare un sistema per procurarmi l’attrezzatura. Così, prendendo
esempio da amici scalatori bergamaschi, ai quali alcuni negozi di articoli
sportivi davano del materiale, ho provato a presentare i miei progetti al
Franchino Sciola del mitico negozio “Sciola Sport” di Osio Sotto (BG).
Franchino “ci credeva”, e aiutava diversi chiodatori, e poi, come ulteriore
contributo alla diffusione dell’arrampicata sportiva (e giustamente per farsi
pubblicità) stampava dei pieghevoli con le relazioni delle falesie. Internet
era ancora roba da marziani, e le guide di arrampicata avevano appena iniziato
ad occuparsi di arrampicata sportiva; inoltre non è che uscissero con grande frequenza, così lo scalatore era invogliato a frequentare il suo negozio per
aggiornarsi. Lo stesso rapporto l’avevo
instaurato con il Sergio Longoni. Questi negozianti avevano intuito le
grandi potenzialità di sviluppo del fenomeno dell’arrampicata sportiva, e
sostenevano attivamente le chiodature; un po’ per il loro interesse, ma
sicuramente anche per una fortissima passione personale. Si può dire quindi che
anche i negozi di articoli sportivi hanno avuto un ruolo determinante per lo
sviluppo dell’arrampicata sportiva nel lecchese. Un po’ come adesso (è ironica)
…
Poi conosco Pietro Corti dei Condor,
alpinista e scalatore lecchese, che aveva capito cosa c’era dietro la
chiodatura di una falesia e che, per tenere vivo il meccanismo, bisognava dare
una mano ai chiodatori: No chiodatori – No falesie attrezzate – No arrampicata
sportiva… Semplice. Ai tempi Pietro lavorava al Centro
Abbigliamento Lombardo di Malgrate presso Lecco, dove si occupava di sviluppare
i prodotti del marchio Great Escapes, e si era speso con la Proprietà per
coinvolgere l’azienda in un progetto di sostegno a me e all’Alessandro Ronchi,
anche lui chiodatore emergente. Si andava ad acquistare trapano, corde
statiche, fix e piastrine… e si portava la fattura in azienda… Semplicissimo. Un sostegno fondamentale che è andato
avanti per anni, liberandomi dalla preoccupazione di trovare le risorse per
realizzare i miei progetti.
IL METODO DELFIX. Nelle mie prime chiodature ho
messo a punto un metodo che è rimasto praticamente invariato fino ad oggi. Una
volta fissato un punto di sosta provvisorio, mi calo sulla linea individuata in
precedenza pulendo la roccia da vegetazione e scaglie mobili. Una volta in
fondo risalgo scalando, utilizzando un bloccaggio ventrale ed una maniglia
jumar per ulteriore sicurezza, che sposto man mano progredisco. Quando,
immaginandomi di stare scalando da primo, sento che è utile una protezione, mi
appendo, recupero il trapano, anch’esso appeso alla corda sotto di me con
un’altra jumar, e metto il Fix. In
questo modo, fissando le protezioni mentre scalo, è più facile posizionare
l’ancoraggio correttamente; la chiodatura infatti deve seguire i movimenti
dell’arrampicata, ed il moschettonaggio deve essere reso “fluido”, evitando di
obbligare lo scalatore a sporgersi dalla sequenza dei movimenti, o di
costringerlo a bloccaggi inutili o posizioni precarie. Massima cura, inoltre,
alla posizione dell’ancoraggio in relazione al potenziale rischio in caso di
volo: per esempio sbattere contro un gradino (magari ribaltandosi) o
addirittura impattare col suolo. Anche se l’“assicuratore” è prontissimo e
attentissimo. È per questo che la posizione dei primi due o tre fix da terra (o
da una discontinuità della parete: un gradino, una cengia) è particolarmente
importante. Ovviamente, se la difficoltà è alta è
anche più complicato individuare la sequenza corretta dei movimenti ed il
giusto moschettonaggio, ma la probabilità di sbagliare, se si chioda salendo
dal basso, è inferiore. Una volta completato il tiro,
riposiziono definitivamente il punto di calata, alzandolo o abbassandolo per
“chiudere” al meglio l’ultima sequenza di movimenti, o per evitare lo
sfregamento della corda. Capita così di dover fissare dei fix
provvisori di frazionamento nei tratti in obliquo, o per tenermi contro la
parete dove strapiomba. Poi li elimino,
ribattendo il tirante nel buco (che faccio sempre più profondo del necessario)
che copro con una piccola spalmata di cemento a presa rapida, così che non si
veda. Anche per organizzarmi in questa operazione,
che giudico molto utile per rifinire il lavoro come si deve, ho dovuto usare un
po’ di fantasia... Generalmente utilizzo una scatoletta, tipo quelle del tonno,
dove metto un po’ di cemento che tengo in un contenitore. Spruzzo dell’acqua,
amalgamo il tutto e spalmo. La corda di servizio sembra un albero della cuccagna,
con attrezzi e sacche per il materiale (compresi fix, piastrine, dadi, chiavi e
pinze), acqua, cemento eccetera appesi qua e là, che recupero man mano quando
mi servono.
Tutto questo per dire che la
chiodatura è un’operazione molto delicata e complessa, dove bisogna tenere
conto di tanti fattori diversi; lo stile di chiodatura rappresenta secondo me
una specie di “firma” del suo autore. Ci sono chiodature sistematicamente
ascellari in nome di una improbabile “messa in sicurezza”, altre forzatissime
che rendono il tiro esageratamente severo e selettivo (spesso pericoloso),
altre completamente “fuori via” rispetto ai movimenti, eccetera. Chi non fa non
sbaglia, ma l’esperienza o la capacità di mettersi in discussione sono
fondamentali. Quello che mi disturba sono l’improvvisazione e la faciloneria. Nelle mie chiodature ho sempre
utilizzato i Fix. Non ho nulla contro i resinati, ma trovo che i fix, oltre ad
essere più economici, sono più pratici e veloci da posizionare. Certo, dove la
roccia è più fragile è più complicato trovare il punto giusto, ma ho messo
migliaia di fix senza avere problemi.
NON SOLO CHIODATURA. Una volta terminato il tiro,
però, l’opera non è finita… I chiodatori o i frequentatori abituali di una
falesia, hanno sempre fatto qualche piccola opera per aumentare il “comfort”:
una corda tesa tra due alberi per stendere la maglia ad asciugare, un tronco
per sedersi a mangiare qualcosa o semplicemente per riposare e chiacchierare.
Oppure un piccolo livellamento o un gradino alla base del tiro, così da
facilitare le manovre della cordata dove il terreno è scosceso. Gli incidenti
infatti capitano anche per una manovra sbagliata da parte di chi “fa sicura”,
magari perché si trova in posizione precaria. Così,
prendendo spunto da alcune delle numerose falesie che ho visitato, ho iniziato
a creare, dove servono, le gradinature alla base delle pareti utilizzando
materiale che trovo sul posto: tronchi e sassi, aggiungendo qualche picchetto. È
un lavoro pesante, molto apprezzato dagli scalatori, che però ha bisogno di una
costante manutenzione, anche a causa della maleducazione di alcuni che non
rispettano il lavoro altrui. Basta poco per contribuire a tenere la falesia in
ordine, magari anche solo rimettendo a posto un sostegno che si è spostato, ma
evidentemente alcuni non ci arrivano. Pensano che ci sia sempre una squadra di
manutenzione pronta! Poi ci sono i nomi alla base delle
vie… In alcune falesie li si vede semplicemente pitturati alla partenza del
tiro, ma ho visto che in diversi siti francesi usano sassi colorati, incollati
con un po’ di cemento. Ho iniziato così anch’io a sbizzarrirmi; trovo che sia
una cosa simpatica, oltre che utile per orientarsi se non si conosce il posto.
LA SITUAZIONE ATTUALE E … FUTURA. Oggi, dopo 36 anni, continuo
ad occuparmi della manutenzione delle mie falesie, e vado avanti a chiodarne di
nuove perché sento ancora una forte motivazione di creare qualcosa con le mie
mani, cercando sempre di migliorare. Tra l’altro, nonostante il numero di
falesie nel lecchese sia aumentato molto, vedo ancora tante possibilità di
sviluppo. Basta fermarsi e guardare una parete rocciosa nel modo giusto,
immaginando cosa potrebbe “venire fuori”; sarà che ho l’occhio allenato, ma di
cose da fare ce ne sono moltissime. Spero quindi per il futuro che vengano
avanti nuovi chiodatori, capaci di realizzare dei bei lavori. Serve però grande
volontà e spirito di sacrificio, e bisogna mettere in conto di rinunciare ad
una enormità di uscite in falesia per scalare per conto proprio. È inoltre
assolutamente necessario un grande senso di responsabilità ed una grande
attenzione in quello che si fa. Non è difficile, magari pensando di fare un
buon lavoro, fare invece dei danni.
Quello del “ricambio” tra i chiodatori
è un grande tema, ma oltre a questo faccio una riflessione su come è cambiato
il modo di frequentare la falesia nel corso degli anni. Il pubblico è aumentato
enormemente, tuttavia mi sembra che prevalga l’approccio da “uso e consumo”,
con tanti scalatori che arrivano e si comportano senza rispetto per il luogo o
per il lavoro che c’è dietro (spessissimo senza nemmeno sapere a chi devono la
possibilità di scalare in quel sito), ma neanche per gli altri frequentatori
della falesia. Vengono abbandonati rifiuti, vengono lasciate le “marcature” con
il magnesio per segnare le prese, arrivano le compagnie che ”montano” i
tiri e li tengono occupati per ore e ore. In molti nemmeno si rendono
conto della fatica, del tempo e dei soldi necessari per chiodare o per
mantenere una falesia in buone condizioni. Ma non è una scusante, ormai è
facile informarsi, e poi è soprattutto una questione di educazione.
Comunque,
senza il lavoro del chiodatore non esiste la falesia attrezzata per
l’arrampicata. Rimango quindi piuttosto contrariato quando vengono spesi soldi
(pubblici, se i promotori sono gli Enti, come sta succedendo sempre più spesso)
per iniziative o eventi promozionali legati all’arrampicata, ma non esiste
alcun tipo di sostegno nei confronti di chi crea le condizioni per l’arrampicata
con la sua opera di attrezzatura. Almeno qui nel lecchese. E poi ci sono i corsi roccia, dei CAI
o dei Gruppi, che arrivano e occupano le falesie chiodate da altri.
Nel lecchese, nonostante la sua
tradizione e il suo legame con l’arrampicata, in realtà non si fa nulla di
concreto; questo ambiente vive troppo sul suo passato, seppur pieno di storie e
personaggi importanti, ed è rimasto indietro anni luce rispetto ad altri
territori che vivono l’arrampicata sportiva in modo attivo e concreto. Mi viene
in mente Arco (che ha “preso” Adam Ondra come testimonial per il comprensorio
dell’Alto Garda Trentino), tanto per fare un facile esempio italiano, o le
falesie francesi che visito spesso, dove le Amministrazioni comunali si
adoperano per le loro falesie. Anche la mancanza di iniziative “serie” intorno
all’arrampicata a Lecco (o addirittura l’abbandono di eventi importanti, così
ben riusciti in passato, come le gare di arrampicata in città) la dice lunga di
come questo argomento sia del tutto ignorato. Il territorio lecchese non riesce
ad evolversi, non riesce a vedere le enormi potenzialità che si possono sviluppare
grazie all’arrampicata sportiva, per il turismo (non basta continuare a parlare
di outdoor: bisogna investire e informare come si deve) e l’immagine della
città. Grande risonanza viene data ad ogni
viaggio in Patagonia e su altre pareti extraeuropee degli alpinisti lecchesi o
legati all’ambiente lecchese, ma mai nemmeno un accenno al lavoro dei
chiodatori, che porta sul territorio decine di migliaia di persone ogni anno.
Da parte mia continuerò a fare
manutenzione e chiodare, finché ne avrò la possibilità. Ricordo quindi il progetto per sostenere le mie
chiodature e manutenzioni ringraziano chi vorrà darmi una mano.
Delfino Formenti Delfix
Dimenticavo… In questi anni ho attrezzato 11 falesie, per un totale di 25 settori e 430
tiri circa. Se consideriamo che su alcune di queste falesie ho fatto
manutenzione rinchiodandole completamente, penso di avere messo mano ad almeno
600 tiri di corda.
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